Ogni settimana, oltre 15 milioni di vestiti “scartati” dagli Europei finiscono ad Accra, in Ghana, creando una vera e propria discarica di indumenti. È quanto denunciato a Bruxelles dai commercianti di Kantamanto, uno dei mercati di abbigliamento di seconda mano più grandi del mondo.
Un’immensa discarica di vestiti: le cause
La causa di questo disastro ambientale è l’accumulo delle cosiddette “scorte morte” europee, ovvero abiti conservati nei magazzini per anni e mai venduti, così come articoli donati a enti di beneficenza o lasciati nei cassonetti per il riciclaggio. Questi rifiuti vengono ceduti dai produttori europei ai commercianti ghanesi, creando un esorbitante affollamento di vestiti e tessuti di scarto.
Il problema è che solo un terzo di questi indumenti – quelli di qualità migliore – viene rivenduto o riciclato. Ad oggi, infatti, la discarica di Adepa (nei pressi di Kantamanto) è in grado di gestire solo il 30% dei rifiuti di abbigliamento che arrivano sul mercato locale. Secondo il Guardian, Il restante 70% finisce in fossati e scarichi, rilasciando coloranti in mare e fiumi, e coprendo le spiagge con vasti grovigli di vestiti.
Disastro ambientale in Ghana: come rimediare?
I commercianti di Kantamanto a Bruxelles hanno proposto di introdurre delle misure per garantire che le imprese europee del settore tessile paghino il giusto prezzo per i rifiuti che creano nelle loro catene di approvvigionamento. Attualmente, sempre secondo il Guardian, i commercianti di Kantamanto ricevono dai produttori di abbigliamento circa 0,06 centesimi di euro per ogni articolo che trattano. La loro richiesta è che Bruxelles fissi una soglia minima obbligatoria di 50 centesimi per articolo e che le imprese europee contribuiscano a un fondo che aiuti a bonificare le discariche e a ridurre il danno ambientale.
Nello stesso tempo, il Parlamento europeo ha dato il via libera a un pacchetto di proposte legislative volte a limitare la cosiddetta “fast fashion”. L’obiettivo è incentivare la produzione di indumenti che possano durare più a lungo e che siano più facili da riutilizzare, riparare e riciclare, per una produzione circolare, sostenibile e socialmente equa.
Infine, il Parlamento ha definito delle sanzioni per le aziende che non saranno in grado di identificare e, se necessario, prevenire, porre fine o mitigare, l’impatto negativo che le loro attività hanno sull’ecosistema.
La speranza è dunque quella di frenare il più possibile questa attività dannosa sia per l’ambiente sia per i diritti umani.
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